Justine Mattera, 50 anni in un libro: «Quello che pochi sanno» (2024)

La scrittura è arrivata al culmine di una carriera poliedrica, fatto di studio e di spettacolo, di ballo, recitazione e sport. «Da bambina, ho sempre nuotato. Perciò, non ero nuova alla sofferenza né al dolore», spiega Justine Mattera che, in occasione dei propri cinquant’anni, da compiersi il 7 maggio, ha deciso di regalarsi un libro, per ripercorrere quel che è stato e ancora sarà. Just Me (Cairo Editore 2021, pp. 160, euro 15), disponibile dal 6 maggio, è il racconto di un’esistenza straordinaria, germogliata ai margini di New York per fiorire poi in Italia, dove «ho sentito il richiamo del sangue». Justine Mattera la ripercorre per intero, legando ogni accadimento con il fil rouge della determinazione. «Credo di aver sempre avuto in me una parte di competitività. Preferisco morire che perdere», dice, lasciandosi scappare una risata. La stessa che tornerà nel ricordare ancora una volta la prima gara di Triathlon, disciplina scoperta a 46 anni. «Mediaset mi aveva offerto un programma sportivo, in cui avrei dovuto allenarmi per quella che poi sarebbe stata una mezza maratona. Filippa Lagerback, mia cara amica, mi ha poi passato uno show su BikeChannel di cui non avrebbe più potuto occuparsi. Allora, un’azienda mi ha proposto di provare il Triathlon. Mi sono allenata con i miei figli, ciclisti entrambi. Continuavo a cadere, in una pista piena di bambini. “Signora, sta bene?”, mi chiedevano. E io sono andata avanti. Nella prima parte di gara, poi, mi è venuta l’asma, credevo di morire. Invece, sono arrivata in fondo. Mi ha ubriacata quella sensazione, la consapevolezza di poter essere invincibile. Vorrei dirlo a tutti gli uomini e a tutte le donne, la vita non finisce con gli -anta».

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Perché ha scelto di scrivere un libro solo ora?«Non ho scelto, è capitato. Un amico, il manager di Emis Killa, mi ha chiesto se avessi voluto scrivere un libro. Con Cairo Editore, ne aveva fatto scrivere uno al rapper ed era andato tanto bene che gli avevano chiesto se conoscessi altri disposti a fare altrettanto. Ha detto: “Justine!”».

E non ha avuto alcuna esitazione?«Sulle prime, ero titubante. Scrivere non è uno scherzo, e ho massimo rispetto per questa professione. Però, mi sono detta che avrei compiuto cinquant’anni, che la pandemia mi avrebbe regalato tempo e possibilità. Non avrei potuto viaggiare né fare una grande festa, così ho deciso di farmi questo regalo. Non avrei perso questo treno».

Cosa le è stato chiesto?«All’inizio, un libro sul fitness. Io, però, ho detto che mi sarebbe piaciuto fare qualcosa di autobiografico, avevo tante cose da metterci dentro e, difatti, l’impresa più ardua è stata la scrematura. Mi sembrava tutto così importante».

Dove parte il suo racconto?«In America, nel minuscolo paesino ai margini di New York nel quale sono cresciuta. Ho creduto con tutte le mie forze che solo il cervello mi avrebbe portata lontano dal Queens, il cervello e lo sport. Ne ho fatto tanto, crescendo, perché negli Stati Uniti lo sport è un buon viatico per l’istruzione».

E tra sport e cervello è arrivata a Stanford, cosa che i più ignorano.«La gente fa in fretta a formulare giudizi sull’apparenza. Quel che spero è che, raccontando da dove io sia arrivata e cosa abbia fatto, possa offrire al pubblico contenuti inediti, dirgli tutto quello che non ho mai detto. Il pubblico ha potuto conoscermi in maniera superficiale, e l’idea che si è fatto di me non ha avuto granché in comune con la realtà. Io vorrei restituire spessore ad una figura giudicata leggera e frivola».

Quanto ha dovuto lottare con questo pregiudizio, di una bellezza che equivalga alla leggerezza colta nel suo significato peggiore?«A volte, non l’ho combattuto, ma utilizzato per andare avanti. Quando la gente si aspetta poco da te, ti dà inconsciamente la possibilità di essere una rivelazione. Altre, ho dovuto lottare per essere tenuta in considerazione. Ricordo Piero Angela. Mi disse: “Con quella voce non riuscirai mai ad essere presa sul serio”».

Un commento poco simpatico.«Non è stato il solo. Fabrizio Frizzi mi disse che non avrei potuto vestirmi da Marilyn Monroe per sempre. Beppe Fiorello fece commenti duri, quasi offensivi. Li ho tenuti lì, metabolizzati con il tempo. Si sono rivelate critiche costruttive, di cui ho potuto fare tesoro. Ho apprezzato che persone per le quali nutrivo stima si prendessero il tempo e la briga di darmi consigli, per quanto duri potessero essere».

E i suoi genitori? Cos’hanno detto quando ha comunicato loro di voler fare spettacolo?«Mia mamma ha alzato gli occhi al cielo. “Tutti quei soldi spesi per la tua educazione e tu ti metti a fare tip-tap vestita come Marilyn”. Aveva ragione, ma con il tempo ha imparato ad avere fiducia nelle mie scelte. Sono stata fortunata: ho sempre avuto buoni voti a scuola e una grande indipendenza e i miei genitori hanno imparato a fidarsi di me».

Dunque, oggi sono contenti delle sue scelte?«Mediamente, penso siano orgogliosi della vita che ho scelto, anche se mia madre di tanto in tanto si fa scappare un: “Potevi essere un dottore e condurre un’esistenza molto più seria”».

Quanta italianità c’è stata nell’infanzia di cui racconta?«Tanta, le tradizioni italiane sono state molto vive nella mia famiglia, dove mamma e papà sono figli di migranti italiani arrivati ad Ellis Island nei primi del Novecento. Il nostro paesino, negli anni Settanta, era ancora organizzato intorno alla chiesa, pieno di italoamericani. Io, però, sono di terza generazione. I miei nonni, per sopravvivere, hanno dovuto imparare l’inglese e l’italiano non l’hanno insegnato ai propri figli. L’ho imparato all’università, io».

Perché ha scelto di studiare Letteratura Italiana?«In verità, sono arrivata a Stanford come studentessa di ingegneria meccanica. Poi, ho conosciuto due professoresse di italiano, una napoletana e una milanese. Erano biondissime, molto chic, bevevano l’espresso ogni mattina. Io, eclettica, arrivavo al campus con i rollerblade e gli shorts. Mi hanno presa in simpatia e spinta a cambiare. Facevo quattro lavori per mantenermi agli studi, perché la borsa di studio, da sola, non sarebbe bastata a pagare la retta di Stanford. Mi sono detta: “Perché morire studiando qualcosa di cui non capisco neanche le spiegazioni dei professori?”».

E così è arrivata in Italia.«Come studentessa all’estero, al campus che Stanford ha a Firenze. È stato come entrare in una favola. Per la prima volta, ho sentito di essere a casa. Credo sia stato il richiamo del sangue. Sono tornata negli Stati Uniti solo per le vacanze, da allora».

I suoi figli, Vincent (13 anni) e Vivienne (11), che rapporto hanno con l’America?«Meraviglioso, vorrebbero vivere negli Stati Uniti. È paradossale: io ho trovato l’America in Italia e loro torneranno dove io sono partita. Si sentono molto americani, hanno la doppia cittadinanza, ma sono lontani dall’essere secchioni come lo ero io. Mio figlio mi dice “Mamma, che antipatica”, ma io vorrei studiassero. Non c’è vergogna nell’essere secchioni, anzi. Con Joe Bastianich, secchione anche lui, dicevamo che è in atto una rivincita di noi cervelloni».

Com’è stato il primo impatto con il mondo dello spettacolo italiano?«Mi è parso di entrare nel Medioevo. La televisione è un piccolo Medioevo e io, ancora, sto aspettando il Rinascimento».

Cosa significa Medioevo?«Significa che spesso la televisione è piena di poco. Lo si vede anche dai quiz culturali. Nessuno sa più le risposte, nessuno legge più e io mi chiedo dove stiamo andando. Vedo molta superficialità, ma non voglio fare di tutta l’erba un fascio. Diciamo che prima di arrivare allo spettacolo ho vissuto una vita piena di cultura. Poi, ho dovuto adeguarmi alle persone che avevo intorno».

Cioè?«Beh, con Valeria Marini e Pamela Prati non potevo certo parlare di Dante. Parlavo di smalti. E magari loro dicono lo stesso di me, eh: “Che noia Justine, non possiamo parlare di Dante con lei”».

Perciò negli ultimi anni si è allontanata dalla tv?«La tv, oggi, è piena di reality e talent, e io non ho più l’età e, forse, nemmeno il talento. Mi sono data ad altro, al teatro, al cicloturismo. Amo l’Italia e mi piace raccontarlo. Magari, un giorno, mi offriranno la conduzione giusta».

Tipo le Meraviglie di Alberto Angela.«Sarebbe una bella rivincita su Piero. “Guarda, con questa voce ho preso il posto di tuo figlio” (ride, ndr)».

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Nel libro, racconta anche il tempo che passa. Come vive il traguardo dei cinquanta?«I cinquanta di oggi non sono i cinquanta di ieri. Guardi Jennifer Lopez. Lo so, lei non mangia e non beve, e noi viviamo in Italia, dov’è impossibile non mangiare e non bere. Io sono godereccia, amo la buona tavola. Pratico tanto sport, ma non lotto per tornare indietro».

Anche se, dalle sue foto Instagram, potrebbe...«Me lo dicono, a volte, che do filo da torcere alle ventenni, ma è una stupidata. Alla mia età, non si può dare filo da torcere ad una ventenne. Non sto dicendo che faccio ricorso a Photoshop, sia chiaro. lo detesto e voglio tenermi alla larga dalla chirurgia. Però, so cercare la luce giusta e, finché non mi cadrà tutto, continuerò a fare foto».

E suo marito, Fabrizio Cassata, ad essere geloso.«Il problema dei mariti sono gli amici. Vedono una foto e cominciano ad insinuare che io sia andata a letto con il fotografo che l’ha scattata, cosa che in tutta la mia carriera non mi è neanche mai stata proposta. Mio marito può crederci, se vuole, ma gli account sono miei e sono libera di pubblicare quel che voglio. Quasi libera».

Quasi?«Non mi piace contenermi, ma ho due figli adolescenti e devo pensare a quel che potrebbero dire loro, i loro amici, chi sta loro vicino vedendo una certa foto. La famiglia è importante e bisogna avere rispetto per le persone che ci vogliono bene».

Cosa vorrebbe restasse di questo libro, di questo traguardo?«Un messaggio forse banale. Carlo Rossini mi diceva sempre che non c’è nessuno che crede in me quanto faccia io stessa, ed è vero. Mi sono sempre venduta meglio di quanto avrebbe fatto qualsiasi agente. E credo che, con la testa, si possa fare tutto. Quindi, più studio, ma meno Tik Tok. Più libri, meno cellulari».

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